È dello scorso 22 ottobre la notizia della approvazione in parlamento di una legge comunitaria che influenzerà produttori e consumatori sia di bevande a base di frutta che di olio vergine d’oliva.
La prima delle due leggi prevede che i ristoratori forniscano ai loro clienti confezioni di olio vergine di oliva provviste di un tappo anti-rabbocco. Si tratta di una speciale chiusura (sulla cui realizzazione diverse aziende italiane stanno già investendo tempo e denaro!) che impedisce il famigerato “allungamento” dell’olio contenuto all’interno della bottiglia, o la drastica sostituzione del prodotto indicato dalla etichetta con uno di altra provenienza (che generalmente è di qualità inferiore).
La nuova norma non va applicata all’olio utilizzato nei ristoranti durante le fasi di cottura e di preparazione dei cibi.
L’Italia non è il primo Paese europeo ad esprimersi a favore del tappo anti-rabbocco.
Già nel 2013, dopo che l’Unione Europea ha autorizzato i singoli stati membri a decidere in maniera autonoma se dare il via o meno a questa nuova misura finalizzata a proteggere gli oli di qualità, la Spagna ha legiferato a favore. Diversa invece la decisione di Gran Bretagna e Olanda, contrari alla nuova misura in quanto fonte di sprechi.
È chiaro quindi che, benché agli occhi del consumatore questo nuovo provvedimento possa sembrare obbiettivamente vantaggioso, le polemiche non sono mancate.
Il presidente di Fipe-Confcommercio, Lino Stoppani, ha così commentato l’approvazione della legge: “Obbligare i ristoratori a fare uso di contenitori di olio di oliva anti-rabbocco è un aggravio inutile di costi, porta a una maggiore produzione di rifiuti, è segno di grave sfiducia per l’esercente e non dà garanzia alcuna ai consumatori in quanto la sofisticazione dell’olio avviene in luoghi diversi rispetto al ristorante”.
In parole povere: il tappo anti-rabbocco garantisce al consumatore che l’esercente non diluisca o sostituisca l’olio di qualità esibito sulle tavole del ristorante, e questo sembra essere un passo avanti. Bisogna adesso valutare l’efficienza dei sistemi di controllo dell’olio prima che questo venga imbottigliato. Auguriamoci che chi di dovere ne sia consapevole e abbia mezzi e volontà per farlo.
Il secondo provvedimento riguarda invece i succhi di frutta e le bevande non alcoliche a base di agrumi e frutta in genere.
Fino a qualche giorno fa, la produzione di questi prodotti – molto richiesti dal mercato italiano e consumati in buona parte da giovani e giovanissimi – era regolamentata da una legge entrata in vigore nel lontano 1961 (Legge n.286 del 1961) che fissava al 12% il contenuto minimo di succo vero di frutta (ossia derivante dalla effettiva spremitura delle arance, nel caso di succo d’arancia!). È implicito dunque che succhi di frutta e bevande non alcoliche a base di frutta vengono “colorati” al fine di acquisire un colore che somigli a quello reale.
Non è in realtà la prima volta che questo provvedimento viene valutato in parlamento. Lo scorso marzo, in seguito al “no” dell’Unione Europea all’innalzamento al 20% della soglia minima di frutta vera nei succhi e nelle bevande analcoliche a base di frutta, il presidente della Coldiretti Sicilia – Alessandro Chiarelli – ha espresso profondo rammarico. Venne infatti stimato che circa duecento milioni di kilogrammi (200.000.000 kg) di arance avrebbero trovato impiego nella produzione di succhi e bevande, con grande beneficio sia per la salute dei consumatori che per l’economia italiana.
Lo stesso Chiarelli ha espresso parole di grande soddisfazione dopo l’approvazione del provvedimento, lo scorso 22 ottobre. ”Esprimiamo apprezzamento perché è una nostra vittoria: la vittoria di chi vuole che i consumatori mangino e bevano bene. L’alimentazione sana è alla base della salute e il fondamento della riattivazione economica dell’agricoltura”.
Anche in questo caso, ad ogni modo, non sono mancate le polemiche. Aurelio Ceresoli, presidente di Assobibe, una branca di Confindustria che tutela i produttori di bibite analcoliche, ricorda e sottolinea che la decisione di innalzare il contenuto minimo di frutta vera nelle bevande analcoliche e nei succhi è, al momento, una decisione italiana. Ciò vuol dire che le bibite importate non avranno un contenuto del 20% in frutta e probabilmente avranno un costo più accessibile ai consumatori.
Inoltre, benché i coltivatori sperino che questo nuovo provvedimento si traduca in una maggiore richiesta di frutta da parte delle aziende produttrici di frutti e succhi, non è da escludere che la frutta venga importata dall’estero nel caso in cui i prezzi siano competitivi.
La verità è che nessuno può prevedere come reagiranno le grandi aziende e i piccoli consumatori a questa nuova legge. C’è da auspicare che il consumatore non si troverà, come purtroppo accade già adesso, a dover scegliere tra un prodotto salutare e uno economico.
Finalmente si comincia a pensare che i succhi di pop/soda non sono salutari ma, acque colorate e zuccherate.
Speriamo che il contenuto di di questi succhi aumenti il vero succo di arancia, uva, mela etc. R. Saia
Preferiamo di gran lunga i succhi delle nostre arance DOP biologiche!